GLI UOMINI DELLA RSI: ETTORE
MUTI, IL PRIMO CADUTO.
IL PRIMO CADUTO DELLA GUERRA CIVILE
24 agosto 1943 Come e perché fu ucciso Ettore Muti, due volte
medaglia d'oro al valor militare, dieci medaglie d'argento, eroe di tre
guerre italiane.
Enzo Capaldo
Poco prima della mezzanotte del 23 agosto 1943 una
piccola colonna di automezzi dei Reali Carabinieri parte dall’autocentro
del Ministero dell'Interno: un'autovettura, un autocarro, un’ambulanza.
A bordo un tenente dell’Arma (Taddei), un maresciallo in borghese (Ricci),
un uomo in tuta kaki di cui nessuno saprà mai il nome - basso, stempiato,
sulla quarantina, con accento napoletano - e una dozzina di carabinieri
armati di moschetto.
Escono da Roma deserta nella notte (vige il coprifuoco),
percorrono la via Aurelia, raggiungono Maccarese. Nella periferia della
cittadina lasciano l’ambulanza, che attenda il loro ritorno, e sostano
alla locale stazione dei carabinieri. Viene svegliato il maresciallo che
la comanda, al quale il tenente chiede due militi perché facciano
da guida alla comitiva fino a Fregene. Salgono sull'auto i carabinieri
Contiero e Frau; la colonna riparte silenziosa nel buio, sguscia per la
campagna e si ferma davanti alla piccola caserma dei carabinieri di Fregene.
La comanda il brigadiere Barolat, che viene tirato
giù dal letto e invitato ad unirsi alla comitiva. Perché?
Risponde brusco il tenente: “Abbiamo l'ordine di arrestare Ettore Muti
e lei deve condurci alla sua abitazione”. Meraviglia dell'assonnato brigadiere.
Con tutto quello schieramento di forze ? Non era più semplice mandare
un piantone a chiamarlo, come era stato fatto altre volte? «No»,
è la risposta. «Questa volta la cosa è diversa».
E in effetti fu una «cosa diversa».
Dopo aver imbarcato il brigadiere, autovettura ed
autocarro proseguono per la strada sterrata che conduce alla pineta di
Fregene, ai cui margini sorge, piuttosto isolata, la bassa villetta ad
un piano che è la residenza di Muti.
Fermate le macchine ad una certa distanza e spenti
i motori, gli uomini vengono fatti proseguire a piedi, in colonna e in
silenzio, fino alla costruzione. «Abita qui» dice il brigadiere.
Bene, risponde l'ufficiale, e ordina di circondare la casa imbracciando
i moschetti e di bussare alla porta. L'ordine viene eseguito, ma nella
villa tutti dormono e ci vorrà qualche minuto perché la porta
venga aperta.
Assonnato compare sull’uscio l'attendente di Muti,
che stupefatto chiede al brigadiere Barolat, da lui ben conosciuto, il
perché di quell’insolita visita alle due di notte. Ma la meraviglia
gli passa di colpo quando un gruppetto di armati, tenente in testa, fa
irruzione nell'interno. «Ho un mandato di cattura per Ettore Muti.
Svegliatelo e fate presto!» spiega secco il tenente.
Muti era in camera da letto, e non era solo. Da
tempo conviveva con lui una ballerina polacca di una compagnia di riviste,
Edith Fucherova. Svegliato forse dal trambusto, compare sulla porta dell’ingresso
a torso nudo, con i soli pantaloni del pigiama. Compaiono anche gli altri
pochi abitanti della villetta: Concetta Verità, la cameriera, e
Roberto Rivalta, un vecchio amico di famiglia di Muti. Questi si guarda
intorno, apparentemente tranquillo, accenna un sorriso al brigadiere che
conosce, chiede che cosa si voglia da lui. Risponde senza complimenti il
tenente Taddei: «Ho l'ordine di arrestarla. Si vesta e venga con
noi». Sguardo sbalordito di Muti, poi una scrollata di spalle:«Va
bene, mi vesto e vengo subito». Il tenente lo rincorre mentre si
dirige verso la camera da letto. Muti incomincia a seccarsi: «Tenente,
so vestirmi anche da solo». E poi, spiega, nella camera c'è
un'altra persona. Ma l'altro insiste e si giustifica: «Ho l’ordine
di non perderla di vista neppure un minuto».
Eseguita rapidamente la vestizione, Muti allunga
il braccio nell’interno dell'armadio in cui pende la sua giacca di tenente
colonnello pilota dell'Aeronautica, con quattro file di decorazioni sul
petto. Il solerte carabiniere non gradisce, osserva che farebbe meglio
a vestirsi in borghese, tanto (ma su questo particolare le versioni non
concordano) «le sue medaglie ora non servono».
Muti indossa ugualmente la sua giubba gloriosa,
si fa preparare un borsa con un po' di biancheria e parte con l'ufficiale
e con gli altri, verso la notte esterna.
Parte anche verso la morte. Invece di prendere la
strada che conduce a Fregene, sulla quale erano rimasti gli automezzi,
la comitiva si dirige a piedi, in colonna, nella direzione opposta: quella
che porta alla pineta. In testa alcuni carabinieri, nel mezzo Muti affiancato
dal Maresciallo Ricci e dal carabiniere Frau immediatamente alle sue spalle,
a due passi di distanza, il misterioso uomo in tuta kaki; e in coda, un
po' distanziato, il tenente con gli altri carabinieri.
Alcuni minuti di marcia silenziosa nei viottoli
della pineta; poi Muti si ferma. Evidentemente l'illogica direzione verso
cui lo stanno portando fa nascere in lui qualche sospetto. Ma non ha tempo
per approfondirlo.
Nella notte fonda dei bosco si ode un fischio, poi
un altro, poi la sua voce che grida: «Ma insomma, che fate? Sono
un italiano!»
Il tutto viene sommerso da alcuni scoppi di bombe
a mano, raffiche di mitra, confuso fuoco di fucileria. Due, tre minuti
di bolgia infernale, al termine della quale Ettore Muti giace al suolo,
nell'immobilità della morte.
Erano circa le tre di notte del 24 agosto 1943.
In quella notte, nella pineta di Fregene, ha inizio la guerra civile che
strazierà l’Italia, di lì a poco, per due anni. E il fascista
Muti, assassinato da altri italiani, ne è la prima vittima.
Si è molto strologato, da una parte sulla
«casualità» dell’accaduto, addotta dalle autorità
del tempo e subito recepita dalla storiografia dei mezzi d’informazione,
nonché sulla presenza, nelle vicinanze, di un campo di paracadutisti
germanici verso il quale Muti avrebbe tentato di fuggire, dando così
motivo alla sparatoria che l'ha ucciso.
E dall'altra parte, su un messaggio scritto da Badoglio
al capo della polizia Senise, che Senise nega di aver ricevuto e che non
è stato trovato (ma c'era bisogno di scriverlo?): «Muti è
sempre una minaccia. il successo è possibile solo con un meticoloso
lavoro di preparazione. Vostra eccellenza mi ha perfettamente compreso».
Lo stile di Badoglio, (ha lasciato scritto di essere,
come generale in guerra, «meticoloso nella preparazione e irruento
nell'azione»), ma sono tutte discussioni di lana caprina. L'intento
omicida della spedizione Taddei emerge indubitabile da due dati di fatto
su cui concordano tutte le testimonianze.
Primo, e minore, i due fischi. Non si fischia, in
quelle specifiche circostanze, per divertimento. Un fischio significa un
ordine, un avvertimento, non può essere altro. E l'altro fischio
probabilmente risponde: «ricevuto».
Secondo dato, determinante in assoluto, è
il percorso su cui Taddei e i suoi uomini hanno condotto Muti dopo l'arresto.
Il mandato di cattura comportava obbligatoriamente la traduzione in un
carcere, che avrebbe dovuto essere la caserma dei carabinieri di Fregene
o più verosimilmente un carcere di Roma, raggiungibile percorrendo
la via Aurelia dopo avere sorpassato Fregene. Invece il drappello armato
che ha seguito l’arresto lascia sul posto i propri automezzi, conduce l'arrestato
nella direzione opposta e si inoltra a piedi nella pineta. Perché?
Non si raggiunge nessun carcere da quella parte! Ovvio dedurne che un mandato
di cattura fu solo un pretesto, l'intento reale essendo l’eliminazione
dell’uomo.
Due altri dati, solo apparentemente secondari, rafforzano
la conclusione. Nei pochi minuti di furiosa sparatoria al buio tutti rimasero
incolumi ed un solo fu colpito, e colpito a morte: Muti.
Logico dedurne che anche la sparatoria fu un pretesto,
per giustificare e coprire i soli colpi diretti contro un bersaglio: quelli
che uccisero lui.
E inevitabilmente si pensa al misterioso uomo in
tuta così ben protetto da essere ignoto ancor oggi: il killer che
stava alle sue spalle ed ha compiuto la parte del «lavoro»
che non si addiceva alle divise degli altri. Infatti - secondo dato comprovante
- il berretto che Muti portava, recuperato fortunosamente dalla famiglia
e tuttora esistente, reca due fori di proiettile: uno sul dietro, in corrispondenza
della nuca, l'altro davanti, che attraversa la visiera. Che cosa si vuole
di più?
Sul significato e la «morale» da trarre
da questo omicidio che oggi i cronisti direbbero «eccellente»,
voluto ed eseguito da uomini che facevano riferimento ad un governo che
si diceva costituzionale (ma non lo era), potrebbero e dovrebbero farsi
diverse riflessioni, che finora non risulta siano state fatte.
E’ sperabile che qualche onesto storico del futuro
vi si accinga. Storicamente il fatto è rilevante, assai più
di quanto sia stato finora considerato: richiama alla memoria l’assassinio
di Calvo Sotelo, che precedette la guerra civile spagnola. Per cinquant'anni
ed oltre gli avversari del fascismo hanno goduto di una buona «rendita»
tenendo vivo il culto del delitto Matteotti, che fu indubbiamente un omicidio
ma preterintenzionale, in quanto non programmato da mandanti ed esecutori
che volevano soltanto «dare una lezione» all'esponente socialista.
Il delitto Muti fu invece chiaramente deliberato
e voluto, inaugurando il sistema della eliminazione fisica degli avversari
politici che fu caratteristico della guerra civile e causò all’Italia
dolori e danni che durano ancora.
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Chi era Ettore Muti e perché fu ucciso? Per
gli italiani che oggi navigano sugli ottant'anni la prima domanda è
forse superflua, per tutti gli altri certamente no.
Romagnolo fino al midollo con tutte le caratteristiche
della sua gente, spavaldo e generoso, poco colto ma intelligente, indipendente
e imprevedibile, coraggiosissimo, visse sempre in prima persona vent'anni
della nostra storia senza rifugiarsi in alcun pretesto di diserzione.
Ardito a sedici anni nella Prima Guerra guerra mondiale,
legionario fiumano con d’Annunzio, squadrista fascista in Romagna, ufficiale
aviatore nella guerra d'Etiopia, di Spagna e nella seconda guerra mondiale.
I vent'anni sono rispecchiati nel suo medagliere: Ordine militare di Savoia,
dieci medaglie d'argento, cinque croci di guerra italiane, due tedesche.
E due medaglie d’oro una italiana e l’altra spagnola. La guerra di Spagna,
che fece tutta dal principio alla fine (fu anche comandante di un battaglione
del «Tercio» franchista) fu la sua grande avventura: la motivazione
della medaglia d'oro parla di centosessanta azioni di bombardamento, tredici
vittoriosi duelli aerei in un anno (e non era pilota di caccia), ma nei
due anni e mezzo di quella guerra, coi suo S. 79 che tornava sempre bucherellato
da proiettili totalizzò qualcosa come quattrocento azioni di combattimento,
con episodi di valore incredibile che purtroppo lo spazio non consente
qui di citare.
Nell'Italia del tardo Ventennio fascista un uomo
simile era inevitabilmente destinato agli osanna e agli incensi della retorica
pubblica. Erano cose che non poteva soffrire. Ad un amico giornalista che
gli chiedeva dati per scrivere un articolo sulle sue gesta rispose: «Vedi
di non rompermi le devozioni con queste stupidaggini». Ad un altro
che da Ravenna gli annunciava l’apertura di una sottoscrizione per offrirgli
un pugnale d'oro da ardito, intimò: «E’ ora di finirla con
queste buffonate. Che mi mandino del buon salame, questo sì che
lo accetto!».
Forse anche perché, oltre che un eroe nazionale,
era un fascista anomalo per quei tempi, improvvisamente Mussolini lo nominò,
nel 1939, segretario nazionale del partito in sostituzione di Starace.
Non era un posto per lui. Il partito fascista, cloroformizzato da una troppo
lunga consuetudine di potere, si era «seduto» nella burocrazia,
nella retorica e nel conformismo.
Muti tentò invano di risvegliarlo sconvolgendo
uomini e situazioni, imprimendo alla sua gestione il piglio disinvolto
realistico e disadorno che gli era proprio, senza risparmiare brucianti
staffilate ironiche. (Essendosi accorto che tutti intorno a lui erano perlomeno
commendatori, tanto brigò che fece nominare commendatore il proprio
attendente e lo chiamava cerimoniosamente con tale titolo quando altri
erano presenti).
Non durò molto. Dopo poco più di un
anno fu sostituito e il primo ad essere felice fu certamente lui.
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Questa, in sintesi, la biografia dell'italiano assassinato
nella pineta di Fregene la notte del 24 agosto 1943. Ma perché?
Per un sospetto, o, diciamo pure un ipotesi, durante
i quarantacinque giorni del suo governo, Badoglio fu ossessionato da due
timori: quello di turbamenti dell'ordine pubblico che diminuissero l'autorità
e rappresentatività dei suo governo (infatti l'Italia fu praticamente
posta in stato d’assedio), e quello di una congiura o colpo di mano di
opposta origine - comunista o fascista - che lo rovesciassero.
In effetti, sbollita presto l'euforia del 25 luglio,
il malcontento era generale e tutti si rendevano conto, in alto e in basso,
che la situazione italiana si era fatta insostenibile. Voci di imminenti
complotti e tentativi di natura fascista con l'aiuto dei tedeschi circolavano
incontrollate negli ambienti politico-burocratici della capitale, con la
tipica isteria che li prende nei momenti di grave crisi e tensione.
Ettore Muti, per il suo passato, il suo coraggio,
il suo prestigio, la stima e le amicizie di cui godeva presso i militari
germanici, veniva indicato dalle voci come il capo naturale della paventata
«sommossa fascista». Bastò questo per perderlo.
Non esisteva e non si è mai trovato uno straccio
di documento, un qualsiasi indizio che egli pensasse a un'eventualità
del genere; e nessuno ha mai potuto, non si dice provare, ma neppure seriamente
affermare che egli vi si stesse preparando. Per uccidere un italiano come
lui bastò un sospetto messo in giro da qualche informatore della
polizia, e la paura di Badoglio.
L'Italia della vergogna e del disonore, che oggi
straripa, aveva iniziato i suoi giorni.
NUOVO FRONTE N. 145-146. Settembre 1994. (Indirizzo
e telefono: vedi PERIODICI)
FU L'UOMO IN TUTA IL KILLER DI ETTORE MUTI
Una notte di cinquant'anni fa nella pineta di Fregene
Roberto Mari
“Badoglio - disse il generale Carboni ex capo
del SIM - aveva un terrore fisico dell’ ex Segretario del Partito” - La
presenza del tenente dei Carabinieri Taddei che già aveva partecipato
al “fermo” di Mussolini - un importante comunicato per giustificare l’assassinio
dell’ Eroe. Nessun colpo di moschetto ma due revolverate a bruciapelo nella
nuca.
Tempo fa, precisamente il 3 luglio scorso, con un
articolo a tutta pagina, sul “Corriere della Sera”, in occasione dei cinquant'anni
dalla caduta del Fascismo, Silvio Bertoldi ha riproposto la vicenda, mai
del tutto chiarita, dell'uccisione di Ettore Muti, ex Segretario del P.N.F.
Tenente colonnello della Regia Aeronautica, decorato di Medaglia d'Oro,
di dieci medaglie d'argento e di due di bronzo al valor militare, definendo,
senza mezzi termini, ciò che accadde in quel drammatico agosto del
1943 nella pineta di Fregene, poco distante da Roma, “il primo delitto
di Stato dopo il Fascismo”.
Medagliere di Ettore Muti. 1 medaglia d'oro al V.M., 5 d'argento, 4 di
bronzo, 5 croci di guerra, 2 croci di ferro tedesche, 2 medaglie al valore
spagnole, 3 promozioni per merito di guerra.
L'esauriente “servizio” di Bertoldi, dopo un lungo
e colpevole silenzio offre finalmente una versione seria e persuasiva dell'accaduto
in risposta a quanto sostennero le autorità d'allora le quali, per
coprire i mandanti o il mandante dell'assassinio, o quanto meno per renderne
difficile, se non impossibile, l'identificazione, giustificarono l'arresto
e la misteriosa morte di Muti ricorrendo ad abiette e infamanti ragioni
di carattere politico e amministrativo; “irregolarità nella gestione
di un ente parastatale” ma non dichiararono quale; “complotto con i tedeschi
per un colpo di Stato tendente a liberare Mussolini e a restaurare il Fascismo”
e infine “una sparatoria provocata da un tentativo di fuga dell'ex Segretario
del Partito”, allorché, a notte inoltrata, i carabinieri andarono
a prelevarlo nella villetta dove ormai s'era ritirato dopo l'abbandono
dell'appartamento che aveva in città, nelle mura di Porta San Sebastiano,
all'inizio della via Appia.
Oltre al “Corriere”, un altro giornale della stessa
importanza, “La Repubblica”, è tornato sull'argomento con un articolo
intitolato “Esecuzione nella pineta”. A Fregene c'è ancora chi ricorda
la morte di Muti. Alle notizie fornite da entrambi quei pezzi, serviti
senza dubbio a ravvivare ricordi quasi spenti, ritengo utile aggiungere
quanto anch'io son venuto a sapere al riguardo, in seguito a colloqui con
personaggi i quali, per le posizioni che occupavano all'epoca della vicenda,
erano a conoscenza di segreti gelosamente custoditi. Mi riferisco al generale
Giacomo Carboni, a quei tempi capo del Servizio Informazioni Militari (SIM)
e pertanto in contatto quotidiano con Badoglio; al generale Paolo Puntoni,
primo aiutante di campo generale di Vittorio Emanuele III e, in particolare,
al dottore Coriolano Pagnozzi, per lunghi anni reggente della segreteria
del capo della Polizia, senatore Bocchini, poi capo di Gabinetto di Buffarini
Guidi, Ministro degli Interni della R.S.I. e successivamente Commissario
della Croce Rossa Italiana fino all'aprile del 1945. Dopo tale data, Pagnozzi
venne fermato a Milano e, in seguito al suo arresto, i servizi alleati
si impossessarono di due casse piene di documenti riservati da lui nascoste
in una cascina della ditta Innocenti, nei dintorni di Milano. Le casse,
contenevano, fra l'altro, le vere liste dell'OVRA che, dopo un'abbondante
e interessata purga, vennero rese pubbliche. Pagnozzi, prima del 25 luglio
era Prefetto, a disposizione della Polizia; quando cadde il Fascismo, durante
i drammatici 45 giorni del governo Badoglio, pur essendo fuori servizio
continuava ad incontrare alti funzionari della Pubblica Sicurezza e ufficiali
dell'Arma e tramite queste amicizie, vecchie di anni, venne a sapere di
situazioni e di avvenimenti che normalmente si definiscono “riservati”.
Seppe, per esempio, dei trasferimenti del Duce dall'isola di Ponza alla
Maddalena e dalla Maddalena al Gran Sasso, mentre, a metà del mese
di aprile del 1945, per incarico del Ministro Tarchi, funzionò da
intermediario per regolare pacificamente il trapasso dei poteri nelI'Italia
settentrionale. Come interlocutore, ebbe Brusasca che gli comunicò
le condizioni di “resa” fra le quali era contemplata la consegna di Mussolini
agli alleati. Quando il Duce venne informato delle trattative, ebbe il
presentimento di quanto successe poi a Norimberga e osservò che
Brusasca e Marazza erano soltanto esponenti della democrazia cristiana
e pertanto non avevano nè i mezzi nè le forze per garantire
che sarebbero state rispettate dagli altri partiti, specie dai comunisti
e dai socialisti.
Ma torniamo al caso Muti e a quanto fece il governo
per trasformare un palese misfatto in una meritoria azione per la difesa
dello Stato. Nel diario del generale Puntoni, di cui a suo tempo curai
la pubblicazione sul settimanale “Tempo”, si legge infatti a questo proposito:
“Conversazione delicata con Sua Maestà. Metto in guardia il Sovrano,
circa un decreto che proprio in questi giorni dovrebbe essere sottoposto
alla sua firma. Si tratta di una disposizione per il passaggio diretto
nell'Arma dei Carabinieri, con il grado di maggiore o di capitano, di elementi
provenienti dalla Polizia. Il decreto, a quanto mi risulta, sarebbe stato
predisposto per favorire il commissario Marzano, protetto da Acquarone,
da Badoglio, da Cerica e da Ambrosio e vorrebbe essere un premio per la
parte che Marzano ha avuto nell'arresto di Mussolini...” E non soltanto
di Mussolini, va aggiunto, ma anche di Muti, cosa, comunque, che Puntoni
annota con scrupolo. “Sembra - riferisce sempre il suo diario - che qualcuno
molto in alto abbia fatto a Marzano promesse concrete per quanto ha fatto
e continua a fare in relazione all'epurazione degli elementi fascisti.
Oltre a essere stato un elemento di primo piano nell'operazione di Villa
Savoia, ha avuto un ruolo importante nell'arresto di Muti, conclusosi in
maniera così tragica...”
Come si svolsero i fatti in quella notte d'agosto
del 1943 nella pineta di Fregene, buia come la gola di un pozzo? Quale
era la situazione generale e quale il clima politico di quelle giornate,
durante le quali italiani e tedeschi, ancora alleati, cercavano di darsela
a intendere a vicenda? Gli italiani, assicurandoli che avrebbero continuato
la guerra, nonostante la caduta del Fascismo e l'uscita di scena di Mussolini,
e i tedeschi, fingendo di crederci. A Roma, infatti, nella massima segretezza,
le autorità militari elaboravano piani antitedeschi mentre ufficialmente,
da parte degli alti comandi italiani, la collaborazione con la Germania
continuava come se nulla fosse. A Madrid, dove I 'incontrai dopo la sua
fuga dall'Italia, il generale Roatta mi raccontò infatti che il
capo di S.M. generale Ambrosio, prima di partire per una riunione con i
tedeschi che si svolse a Bologna il 16 agosto del 1943, gli accennò
alI 'eventualità di un armistizio con gli angloamericani ma ciò
nonostante, con la massima improntitudine, discusse lo schieramento delle
forze italo-tedesche per la difesa della Penisola contro sbarchi alleati.
Sempre a Bologna, in quella stessa circostanza, Roatta chiese e ottenne
una divisione germanica in più per rinforzare la Sardegna e allorché,
nel corso di una delle tante indagini sul suo comportamento per la mancata
difesa della capitale, gli fu domandato il perché di una così
strana richiesta, rispose che fecero altrettanto Ambrosio e Badoglio per
evitare che i tedeschi scoprissero la verità sulle trattative che
erano già in corso con il nemico. A rendere, comunque, più
ambigua la situazione, verso il 20 di agosto, accadde un altro fatto che
ha dell'inverosimile ma che rispecchia quali fossero i veri propositi di
Badoglio. Interpellato dal capo di S.M. generale, il Maresciallo rifiutò
la proposta di “orientare i comandi periferici nei Balcani su quanto sarebbe
successo” e aggiunse di aver preventivato anche la perdita di mezzo milione
d'uomini, piuttosto che “soggiacere alle ben più gravi conseguenze
di un'immediata reazione germanica provocata da eventuali indiscrezioni
...”.
Il vecchio Maresciallo, viveva in preda al terrore
e ogni mattina, infatti, allorché il generale Carboni, quale Commissario
del SIM, si recava a rapporto, capitava che talvolta vi si recasse anche
due volte nella stessa giornata, Badoglio tirava un lungo sospiro, scrollava
la testa e ripeteva la solita litania: “Anche stanotte, i tedeschi non
mi hanno prelevato!” . Faceva una pausa e aggiungeva: “Ecco in che pasticcio
mi ha messo il Re!”. In altre parole, pavido e incapace di dominare la
situazione che giorno dopo giorno gli sfuggiva di mano, era più
preoccupato della propria sorte che di quella del Paese che s'avviava allo
sfascio. Del resto, come si comportò durante l 'ultimo, drammatico
Consiglio della Corona che si tenne al Quirinale, prima della precipitosa
partenza per Pescara e nel castello di Crecchio, in attesa dell’imbarco
sulla corvetta “Baionetta”? In proposito, esistono due testimonianze ineccepibili,
una è del generale Luigi Marchesi, a quell'epoca giovane maggiore
addetto al capo di S.M. generale Vittorio Ambrosio e l'altra è del
generale Paolo Puntoni che, in veste di primo aiutante di campo generale,
era, diciamo così, l'ombra di Vittorio Emanuele III. Da entrambe
le dichiarazioni si ricava un quadro desolante, sia morale che intellettuale,
fornito da individui che pur investiti di altissima autorità si
dimostrarono incapaci di fronteggiare gli eventi, dotati di discutibile
amor patrio e pronti a qualsiasi compromesso pur di salvare i propri averi
e la propria pelle. Sebbene di grado piuttosto modesto rispetto a quello
di vari partecipanti al consiglio, (c'erano infatti, attorno a un tavolo
ovale, il Re, Badoglio, Carboni, Ambrosio, I'ammiraglio De Courten, Guariglia
e alcuni altri ministri), Marchesi che conosceva a menadito i retroscena
delle trattative per I 'armistizio, prese la parola e manifestò
il proprio disappunto allorché Badoglio e Carboni, per timore delle
reazioni germaniche, si opposero al lancio di paracadutisti USA su Roma
e al contemporaneo atterraggio, sui campi attorno all'Urbe, della 82a divisione
avio trasportata americana. Il perché del rifiuto, Marchesi lo spiega
con una battuta tagliente: “Paura, una forsennata paura fisica dei tedeschi.
Badoglio, era in preda al panico. . .”.
A Crecchio, secondo il racconto di Puntoni, successe
lo stesso. “Mentre il Re è assolutamente tranquillo - annotò
nel suo diario il generale - Badoglio appare distrutto... È pallido,
preoccupato e ossessionato dal terrore, che del resto manifesta palesemente,
di cadere nelle mani dei tedeschi. La frase che ripete sovente è
“Se ci prendono, ci tagliano la testa a tutti...”
Ettore
Muti a colloquio con Amedeo Duca d'Aosta su un campo di aviazione.
Alla paura di finire in mani ai tedeschi, Badoglio
univa un timore, altrettanto evidente e dichiarato, che elementi di spicco
del passato Regime, d'accordo con I'alleato germanico, potessero provocare
sommosse o inscenare un colpo di Stato con conseguenze, soprattutto per
lui, facili da intuire. Muti, di cui il Maresciallo conosceva la fedeltà
a Mussolini, anche se in più circostanze ne aveva criticato le direttive
di guerra, era uno dei più “indiziati” e, come tale, di continuo
nel suo mirino.
“Non appena venni nominato commissario del SIM -
mi raccontò Carboni in occasione di un nostro incontro - il Maresciallo
mi chiamò e mi impartì direttive particolari per la sorveglianza
di Muti.” "È un tipo pericolosissimo - mi disse - e va
tenuto d'occhio notte e giorno. Attento, però, a farlo con discrezione;
il tipo è violento e non so come potrebbe reagire. Non voglio scandali...Controllarlo,
sorvegliarlo. Una parola. A rendere più difficile l'operazione contribuiva
anche il fatto che dopo il ritorno in Patria, nel 1943, Muti era stato
arruolato dai servizi segreti che dipendevano da Roatta...”
Prima, comunque, di ordinarne l'arresto, Badoglio
cercò di ingraziarselo, nella speranza che, in caso di bisogno,
avrebbe potuto usarlo come “alibi” con i tedeschi. Cosa fece, me lo rivelò
Coriolano Pagnozzi. “Un giorno - disse - il Maresciallo chiamò il
Questore Benedetto Norcia, che sapeva amico di Muti, e lo pregò
di invitare al Viminale l'ex Segretario del Partito. Norcia si mise in
contatto con l'amico, lo condusse da Senise e questi, a sua volta, lo portò
da Badoglio. Fu un colloquio "cordialissimo", durante il quale
sia il capo del Governo che l'astuto Senise si dichiararono preoccupati
per la sua incolumità, dato, dissero a una voce, che c'erano in
giro molti sovversivi. "Se possiamo darle un consiglio" - intervenne
anzi il numero uno della Polizia mentre Badoglio ne confermava le parole
con vistosi cenni del capo " lasci la casa di Roma e si ritiri a Fregene;
starà più tranquillo, là nessuno la potrà disturbare,
nè gli antifascisti più scalmanati, nè la pubblica
sicurezza...". Con la tipica ingenuità dell'eroe, Muti seguì
il consiglio del Capo del Governo, che ritenne dettato da sincera amicizia,
e non lo sfiorò neppure l'idea che i due avessero agito in quel
modo per tenerlo con più facilità sotto controllo. D'altronde,
come poteva supporre che stessero preparandogli una trappola mortale, quando
nessuno s'era preoccupato di ritirargli il passaporto con il quale, nella
seconda decade d'agosto, si era recato in Spagna? Quel viaggio, invece,
segnò il suo destino. A Madrid, infatti, attraverso contatti con
personalità conosciute durante la guerra civile, Muti venne a sapere
che erano già iniziate le trattative con emissari angloamericani
per l'armistizio e ne rimase sconvolto. Tornò a Roma indignato;
confidò agli amici quanto aveva saputo e si scagliò contro
Badoglio con parole di fuoco. Le sue escandescenze vennero riferite al
Capo del Governo da informatori della Polizia e da agenti del SIM e Badoglio,
che già era in preda allo sgomento, nel timore che Muti, per tentare
la liberazione di Mussolini, prendesse contatto con i tedeschi e li avvertisse
delle trattative in corso con gli alleati, decise di accelerare i tempi
e, per l'esecuzione del suo piano, convocò Carboni. A Senise inviò
un messaggio il cui contenuto era una chiara sentenza di morte. Diceva,
infatti: “Per Sua Eccellenza Senise. Muti è sempre una minaccia:
il successo è solo possibile con un meticoloso lavoro di preparazione.
Vostra Eccellenza mi ha perfettamente compreso”.
“Badoglio - fu il racconto di Carboni - mi chiamò
il 21 agosto e mi ordinò, perentoriamente, di far arrestare Muti.
Motivo: spionaggio e complotto contro lo Stato. "A compiere l'arresto
- disse - devono essere i Carabinieri perché soltanto di loro posso
fidarmi..." io, a mia volta, convocai nel mio ufficio il Comandante
dell'Arma, generale Angelo Cerica, e insieme studiammo le modalità
della faccenda, considerandone le numerose difficoltà. Avevo appena
finito il colloquio con Cerica, che mi chiamarono di nuovo al Viminale.
Trovai il Capo del Governo in preda e una crisi di ... incertezza. Volle
sapere, in dettaglio, gli accordi presi con Cerica, poi, all'improvviso,
si alzò dalla poltrona e disse: "Non ancora. Voglio ripensarci.
L'arresto di Muti potrebbe affrettare l'azione dei tedeschi, oppure Muti
potrebbe riuscire a farla franca e allora succederebbe uno scandalo. Altra
cosa, se l'arrestiamo, dove lo nascondiamo?" Camminava su e giù
per la stanza, avvilito e depresso come non lo avevo mai visto. "Tanto"
- disse a un tratto socchiudendo gli occhi - "io finirò ammazzato
dai tedeschi...".
Domandai: “Ha notizie, Eccellenza, di novità
nei rapporti Kesselring-Muti?”
Badoglio scrollò il capo. "Allora"
- dissi - "soprassediamo di qualche giorno...". Neppure due giorni
dopo, il Maresciallo mi richiamò. Era spaventato e pallido come
un cencio. "Non si può più aspettare" - disse -
"se non lo arrestiamo subito, quello ci fa la pelle a tutti. Mi ripeta
il piano...". Mentre gli esponevo quanto avevo concordato con Cerica,
m'interruppe e disse: "E se si difende? Cosa facciamo, se si difende?"
“Il comandante dei Crabinieri è persona fidata”
- risposi- “ed è sicuro dei suoi uomini...”.
“Bene, bene” - ribatté Badoglio - “a che
ora sarà fatto?”.
“In piena notte” - dissi io. Il Maresciallo mi congedò
ripetendomi più volte: “Mi raccomando. Mi raccomando. Se Muti ci
scappa è finita per tutti...”.
L'incarico di eseguire l'operazione, venne affidato
al capitano Vigneri un esperto, diciamo così, di faccende del genere
poiché, più o meno un mese prima, aveva partecipato all'arresto
di Mussolini a Villa Savoia. Stranamente, però, l'ufficiale si dichiarò
indisponibile e passò l'ordine a un suo solerte dipendente, il tenente
Ezio Taddei, il quale lo eseguì con particolare zelo.
Fino al giorno 23 mattina, poche ore prima dell’uccisione,
con Muti che gli si era rivolto per protestare contro la visita di un maresciallo
dell'Arma che intendeva fermarlo, sebbene non avesse un regolare mandato,
Senise recitò la commedia dell’amico e del protettore. Stando così
le cose, “Jimmy dagli occhi verdi”, come lo chiamava D'Annunzio da quando
all'età di 17 anni se lo vide arrivare a Fiume, dopo che a 16 anni
aveva partecipato alla Grande guerra nel corpo degli Arditi, viveva a Fregene,
fuori d’ogni sospetto, in una villetta d'affitto, situata al numero 19
di via Bagnoli. Con lui, abitavano un amico ravennate, l'industriale Roberto
Rivalta, l'attendente Masaniello, la bellissima soubrette Dana Harlowa
e la cameriera Concetta Verità.
Ed ecco lo scenario del dramma. Notte calda, silenziosa,
piena di stelle. Da Roma, al comando del tenente dei Carabinieri Taddei,
parte una colonna di macchine dell'autocentro del Viminale, formata da
una vettura, un autocarro e un'autoambulanza che, attraverso la via Aurelia
raggiunge la stazione dei carabinieri di Maccarese, dalla quale dipendono
i due posti fissi di Fregene e di Palidoro. A Maccarese Taddei lascia l'autoambulanza,
ed è strano che se ne sbarazzi data la notorietà del personaggio
da “arrestare" e, poco pratico dei luoghi, prende come guide due militi
del posto, fra cui Antonio Contiero, il Contiero che dopo l'8 settembre,
rivelerà quanto in realtà accadde quella notte. Il brigadiere
Barolat, comandante della stazione di Fregene, quando arriva il gruppo
al comando del tenente Taddei, vi si unisce e lo guida alla villa dell
'ex Segretario del Partito che si trova ai margini della pineta, distante
all'incirca un chilometro e mezzo. Con l'ufficiale, ci sono un maresciallo
dei servizi, un altro brigadiere, 16 carabinieri in uniforme e, in coda
al gruppo, un taciturno civile, con indosso una tuta kaki. Alle due di
notte, la villetta viene silenziosamente circondata e, per ordine di Taddei,
Barolat suona alla porta. Apre l'attendente di Muti Masaniello; il tenente
dei Carabinieri irrompe in casa e dichiara ad alta voce: “Ho un mandato
di cattura per Ettore Muti!”.
Questi compare a torso nudo, con i pantaloni del
pigiama, e pur mostrando sorpresa e incredulità si rassegna all'intimazione
di arresto. Agli altri, che nel frattempo si sono anch'essi alzati, Taddei
ordina di tornare nelle loro stanze. Sotto scorta, Muti si reca nella propria
camera e sebbene l'ufficiale dei carabinieri insista perché vesta
un abito civile, “Jimmy" indossa, invece, l'uniforme dell’Aeronautica
e ridiscende in basso. Saluta gli amici, consegna alcune migliaia di lire
alla cameriera e, dopo averla pregata di telefonare al comandante Aliprandi,
capo di gabinetto del Ministro della Marina, data la sua appartenenza al
SIS, si avvia all’uscita. Nella luce della porta, Rivalta ha modo di vedere
in viso il misterioso “uomo in tuta” e dopo la morte di Muti lo descriverà
di mezza età, stempiato, con gli occhi chiari e un inconfondibile
accento napoletano. Quale ruolo, quel personaggio abbia nella faccenda,
lo sa soltanto il tenente Taddei. È un “segreto”, comunque, che
a Rivalta, il quale potrebbe svelarlo, costerà la vita e difatti
qualche tempo dopo l'industriale verrà ucciso in un vicolo di Ravenna
e nessuno indagherà sulla sua morte. Il gruppo si ricompone e verso
le due e mezzo si mette in cammino attraverso la pineta; nonostante il
buio, nessuno fa uso di lampade. Stranamente, in testa a tutti, anziché
Barolat, scelto come guida, o un paio di carabinieri, cammina Muti e, alle
spalle di Muti, l'individuo in tuta; dietro, ci sono tutti gli altri, compreso
Taddei. A questo punto comincia il “giallo”. Taddei, nella versione ufficiale
fornita alla magistratura militare parla di attacchi con armi da fuoco,
di risposta da parte dei carabinieri e di uccisione di Muti mentre tenta
la fuga. La verità del milite Contiero, uno dei 16 del gruppo, allorché
si è deciso a parlare, risulta alquanto diversa: il tenente lancia
un fischio, evidentemente un segnale, cui risponde un altro fischio, a
titolo d'intesa, seguono alcune raffiche di mitra e dei colpi isolati;
tutti gli uomini, ignorando cosa sta succedendo, si buttano a terra poi,
a un ordine di Taddei, come d'incanto torna il silenzio. I militi, tutti
illesi, si rialzano; il solo che non si rimette in piedi è Ettore
Muti: è bocconi, a ridosso di un cespuglio. Due pallottole, sparate
a bruciapelo alle spalle, gli hanno forato il berretto all'altezza della
nuca e dalle due ferite da revolver esce un abbondante fiotto di sangue.
Nonostante il buio, lo scambio di raffiche fra presunti assalitori e assaliti,
non c'è stato un ferito; c'è soltanto un cadavere, quello
di Muti, che raccolto verso l'alba e infilato in un sacco, in fretta viene
trasportato a Roma, all'ospedale militare del Celio. Fra le persone accorse,
c'è la madre dell'Eroe la quale, a ricordo del figlio, chiede solamente
il berretto sul quale sono ben visibili i fori d'entrata dei due colpi
sparatigli dall'individuo in tuta. La versione ufficiale dell'accaduto,
pubblicata all'indomani, mise a nudo, ancora una volta, la viltà
di chi aveva impartito quell'ordine. Parlava infatti di scontro a fuoco
con paracadutisti tedeschi, mentre venne accertato che nella pineta non
c'erano accampamenti militari; di tentativo di fuga di Muti, mentre l'arrestato
presentava due fori nella parte posteriore della testa e nessuna ferita
nel resto del corpo e tanto meno nelle gambe; di parà apparsi come
ombre, sebbene nella pineta ci fosse buio pesto e infine di “eccezionali
precauzioni” del comandante del drappello il quale, invece di usare l'auto
di cui disponeva, che gli avrebbe permesso di allontanarsi rapidamente
e indisturbato da Fregene, s'incamminò a piedi, esponendosi ad ogni
sorta di eventuali pericoli.
Questo fu il racconto di Carboni: “Quando la mattina,
dopo ricevuta la relazione di Cerica, andai al Viminale per riferire a
Badoglio, mi resi conto che il Maresciallo era soddisfatto di quanto era
successo. Sparito Muti, il Capo del Governo prese coraggio e ordinò
ai Carabinieri, alla Polizia e al SlM, sempre con la motivazione del "complotto
contro lo Stato", numerosi arresti di persone da lui ritenute "particolarmente
pericolose" . Il colpo di grazia a Muti, cercò di darlo con
un comunicato infamante che uscì il 25 agosto in cui si parlava
di “gravi irregolarità nella gestione di un ente parastatale”, di
un “tentativo di fuga mentre lo si conduceva alla caserma” e del suo decesso
a causa di ferite da colpi di moschetto, sparati dai carabinieri che lo
inseguivano.
Una menzogna dalla prima all'ultima parola e un
meschino tentativo di scaricare la responsabilità dell'accaduto
sui Carabinieri, mentre nel gruppo c'erano anche agenti di polizia ed era
un poliziotto l' individuo in tuta che sicuramente agì da killer.
Altro particolare da non trascurare: furono forniti dall'autocentro del
ministero degli Interni, di cui era capo Marzano, gli automezzi usati per
la spedizione.
Dopo la pubblicazione del comunicato, Carboni si
recò al Viminale a protestare; per ordine del Maresciallo ne venne
allora preparato un secondo, “peggiore del primo - mi confermò il
generale - che per fortuna, però, non venne diramato... “
Anche il commento di Vittorio Emanuele lll, riferito
da Puntoni, fu negativo: “Sua Maestà mi parla della situazione interna
e mi dice di aver dovuto parlare di nuovo, in maniera più aspra
e violenta con Badoglio, il quale mostra troppo apertamente di volersi
appoggiare ad elementi che risultano poco sicuri...”
Il Questore Norcia, che si sentiva “colpevole” per
aver stabilito un contatto di Muti con Senise e con Badoglio, indignato,
diede immediatamente le dimissioni.
E il famoso “biglietto” al Capo della Polizia? Badoglio
tornò sull'argomento con un'intervista, concessa nell'autunno del
1950 al settimanale romano “Elefante” che provocò ripensamenti o
smentite a non finire; e smentì perfino il suo stretto collaboratore
Senise che accusato di eccessivi timori per un complotto tedesco fascista
rispose in maniera esplicita che “le preoccupazioni in quel senso erano
solo ed esclusivamente del Maresciallo”. Nell' intervista, Badoglio disse,
fra l'altro, “il biglietto che reca la mia firma, diretto a Senise non
ha a che vedere con Muti, se non l'ultima parte. Allora ero preoccupato
di cose più importanti e il nome di Muti serviva soltanto per ricordo
a Senise...”. Il compromettente messaggio, quindi, a detta di chi lo compilò,
era vero, ma appena il Maresciallo ne fece cenno sul settimanale “Elefante”,
il Capo della Polizia inviò una lettera di rettifica il cui contenuto
contrastava però in maniera palese con quanto aveva affermato in
precedenza; prima, infatti, aveva sostenuto l'autenticità del biglietto
poi, pentito forse di avere ammesso una verità che lo coinvolgeva
in una così torbida faccenda, disse “che si trattava di una macchinazione
organizzata al Nord dalla propaganda fascista”.
«Muti è sempre una minaccia. il successo è possibile
solo con un meticoloso lavoro di preparazione. Vostra eccellenza mi ha
perfettamente compreso. Badoglio»
Coriolano Pagnozzi, a sua volta mi dichiarò: “Appena
seppi della morte di Muti e lessi quel comunicato, non esitai a considerare
la “versione ufficiale" un falso rozzo e smaccato, suggerito da una
ben nota vigliaccheria. interrrogando amici dei Carabinieri, della Polizia
e dello stesso Muti, feci anch’io un’inchiesta; dopo l’8 settembre, allorché
ripresi servizio, da testimoni ineccepibili e dalla lettura di carte riservate
esistenti al Viminale e da altre abbandonate dai fuggiaschi di Pescara
o lasciate, a bella posta, per nuocere a qualche rivale, venni a conoscere
i particolari di quella tragica notte. Badoglio, di carte compromettenti,
per paura di venire acciuffato dai tedeschi, quando fuggì, ne lasciò
parecchie; scordò perfino il testo delle condizioni di armistizio,
tanto che fu costretto a chiederne una copia alla missione militare
alleata che il 13 settembre si recò a Brindisi. Il famoso biglietto
l'ho visto con i miei occhi. Era nella cartella di Buffarini Guidi. Quattro
righe di chiaro significato, pesanti come il piombo”. Da quell' agosto
del 1943, sono trascorsi 50 anni. L'allora tenente Ezio Taddei, vivo o
morto che sia, continua a custodire quel pesante segreto. Perché
non abbia mai parlato, e se è ancor in vita perché non si
decida a raccontare la verità, è un mistero. Nonostante siano
stati aperti perfino gli archivi del segretissimo KGB sovietico, non so
perché il suo “vero rapporto” non venga messo a disposizione della
storia. Comunque siano andate le cose, sappiamo che fu un esecutore d'ordini
e pertanto la sua responsabilità è marginale. Il vero colpevole,
è un altro...
STORIA VERITA’ N. 13. Gennaio-Febbraio 1994 (Indirizzo
e telefono: vedi PERIODICI)
ETTORE MUTI Nel ricordo di Pietro
Montalto
Pietro Montalto
Obbedendo ad un impulso generoso il giovanissimo
Ettore andò volontario nella prima guerra mondiale. Appena tredicenne
aveva perduto il padre e a quindici anni, facendo tutto da solo, era riuscito
ad arruolarsi nel 6° Rgt di fanteria, per essere poi assegnato agli
Arditi.
Una notte, questo reparto costituito da 800 volontari,
aveva compiuto un'impresa eccezionale: guadare il Piave e costituire una
testa di ponte sull'opposta sponda.
Degli eroici volontari solo 22 erano sopravvissuti
ai micidiali combattimenti.
A 17 anni era stato legionario con D'Annunzio, che
lo stimava molto e lo aveva soprannominato “Jim dagli occhi verdi”.
Dopo una permanenza nei quadri della Milizia era
entrato nell'Aeronautica, dimostrando straordinarie capacità di
pilota.
Le campagne d'Etiopia e di Spagna lo avevano visto
battersi da prode. Pochi giorni prima dell'ingresso delle truppe italiane
in Addis Abeba, aveva con spavalda grinta condotto il suo aereo, con Galeazzo
Ciano a bordo, sull'aeroporto della capitale etiopica, ove aveva compiuto
un atterraggio e un decollo sotto lo sguardo attonito delle sentinelle
nemiche, paralizzate dalla sorpresa.
Badoglio, che non aveva gradito quel gesto che toglieva
a lui il vanto di calpestare per primo quella terra, tanto che aveva fermata
la marcia dell'armata di Graziani, che lo avrebbe preceduto da Sud, ordinò
gli arresti di rigore per quell'equipaggio, ordine che poi Mussolini annullò,
sostituendoli con una decorazione.
Oltre alla medaglia d'oro, conquistata in Spagna,
ben dieci medaglie d'argento e numerose altre italiane e straniere, ornavano
la sua giubba azzurra. Balbo, che s'intendeva di piloti, lo apprezzava
e lo definiva “irripetibile Stradivario” del volo.
Poi, senza averla nè sollecitata e neppure
vagheggiata, gli giunse la nomina a Segretario del Partito Fascista al
posto di Achille Starace (nominato Capo di S.M. della Milizia).
Ma, essendo in corso il secondo conflitto mondiale,
preferì tornare a combattere anche perché mal s'addiceva
alla sua natura il lavoro di scrivania.
Fu quindi a Rodi, da cui compì azioni di
bombardamento sugli impianti portuali di Haifa provocando danni notevoli.
Poi la mirabile impresa aviatoria spinta sino alle isole Barhein, nel golfo
Persico, per bombardare con successo i più importanti impianti petroliferi
inglesi: un volo di 4500 chilometri, in parte notturno e su territorio
nemico.
Altrettanto valido il suo personale contributo alla
costituzione di reparti siluranti, sempre a Rodi.
Fu richiamato in Italia e assegnato al Servizio
Informazioni dell'Aeronautica per svolgere alcune missioni in Spagna dove
lo colse la vicenda del 25 luglio 1943. Tornato in Italia si pose a disposizione.
Verso il 7-8 agosto il Maresciallo Badoglio lo chiamò
a colloquio per chiedergli di intervenire affinché le Camicie Nere
della divisione corazzata “M”, accampata alle porte di Roma, togliessero
dalle mostrine l'“emme rossa” senza opporre resistenza. Muti rifiutò.
Nel congedarlo, Badoglio gli aveva fatto un gesto
amichevole per rassicurarlo, come... tra bravi e leali soldati e nulla
faceva presagire quanto stava tramando.
Il Segretario del Partito Scorza e il Gen. Galbiati,
Capo di S.M. Milizia, nulla avevano opposto allo scioglimento del Partito
Fascista.
La guerra “continuava” e tutti si ritenevano in
dovere, con il nemico entro i confini della Patria, di eseguire gli ordini.
Ma già il 10 agosto, in una riunione segreta
di generali e del rappresentante della Real Casa, era stata fissata una
retata di arresto degli esponenti del regime caduto il 25 luglio.
Il 24 agosto fu il giorno stabilito per arrestare
Ettore Muti, preceduto da alcune avvisaglie di cui l'eroe non aveva tenuto
conto per il suo carattere leale, distante dagli intrighi, e per la coscienza
tranquilla.
Non l'arresto ma la morte era l'obiettivo del piano
scellerato, accampando poi la vergognosa giustificazione di un tentativo
di fuga per il colpo alla nuca sparato dal sicario e aggiungendo successivamente
la spudorata menzogna degli illeciti amministrativi: questo l'onore dei
generali intenti a preparare la resa.
STORIA VERITA’ N. 13. Gennaio-Febbraio 1994 (Indirizzo
e telefono: vedi PERIODICI)